Vite degli uomini illustri
Lei non sa chi sono io!
Lei non sa chi sono io! C'è però chi non si lascia intimidire. Nessun idolo, nessun mostro sacro, anche i grandi possono essere vittime degli strali dell'ironia; è quello che fa Achille Campanile in questo libro da Socrate bocciato agli esami perché affermava di non sapere nulla, ad Alessandro Magno che portava sempre con sé un pappagallo per insegnargli il greco. Campanile non risparmia nessuno: Torquato Tasso Giacomo Casanova, Alessandro Manzoni, Gutenberg, Dante, i grandi personaggi della storia vengono sbeffeggiati dalla sua sferza impietosa e umoristica, perchè alla fine sono uomini come gli altri.

Sfogliando il libro
Il pappagallo di Alessandro Magno
Dalle storie naturali:
«Alessandro il Grande portò in Grecia il pappagallo da lui trovato nell'India».
Ma quante mai cose portò Alessandro il Grande? Doveva avere un bagaglio enorme. Perfino il pappagallo. [...] Possibile che, al momento di partire per il ritorno, fra tanta gente seria, generali, principi e altro, nessuno abbia detto ad Alessandro: «Il pappagallo però lasciamolo»?
C'è da immaginare le peripezie del viaggio. Attraverso l'Asia, sulle montagne, nel deserto, per terra e per mare, fra cavalli, elefanti, prigionieri, esercito, salmerie, armi, buoi, schiave, buffoni, poeti, storiografi, carri cigolanti ecc. ogni tanto Alessandro s'affacciava dal baldacchino:
«Attenti al pappagallo».
Oppure:
«Avete dato da mangiare al pappagallo? Badate che non voli via».
La sera si attendavano e il primo pensiero del grande condottiero era:
«Come avete sistemato il pappagallo?»
«Da lui trovato nell'India» dicono le storie.
C'è da figurarsi la scena del rinvenimento. [...] tutt'a un tratto Alessandro Magno si trova a faccia a faccia con questo strano pennuto multicolore che parla in sanscrito (evidentemente in India non poteva parlare che sanscrito; erano pappagalli coltissimi), con quel becco curioso e quel ciuffetto sulla testa.
«Oh, questo?» avrà detto. «Portiamolo in Grecia. Gli faremo studiare il greco. Chi sa non ci dica qualcosa di interessante.»
L'incontro, naturalmente, sarà avvenuto in un bosco.
I primi tempi, durante il viaggio, ci sarà voluto l'interprete per capire quello che diceva il pappagallo. E chi sa che soggezione incuteva con quel saper parlare una lingua così difficile.
Nei porti, quando la gran carovana sbarcava o s'imbarcava, in mezzo al caos di bagagli e di gente d'ogni razza e colore si vedeva sempre questa gabbia col pappagallo che andava avanti e indietro, sballottata dai facchini, sulla marea di casse, delle ceste, dei colli d'ogni dimensione.
In principio non avranno nemmeno capito che il pappagallo era un semplice pappagallo; cioè, che imitava il linguaggio, ripeteva quello che sentiva dire senza capirlo. Avranno creduto che fosse né più né meno che un uccello dotato di favella umana e avranno intavolato delle conversazioni con lui, aspettandosi risposte sensate e confidenze. Poi dovett'essere una delusione.
Sempre dalle storie naturali e sempre a proposito del pappagallo:
«Il signor De La Borde narra d'aver veduto un pappagallo che faceva le veci del cappellano sopra una nave».
Sotto quale rubrica mettereste una simile notizia? Forse sotto: «I fatti straordinari»? Io direi piuttosto: «I grandi fregnacciari».
C'è da immaginare la scena del pappagallo che faceva le veci del cappellano sopra la nave. Il pappagallo che officia e i marinai intorno in ginocchio. Il pappagallo che tiene la predica. Il pappagallo che dà l'estrema unzione, o battezza, o unisce in matrimonio. E dire che il signor De La Borde avrà preteso di esser preso sul serio.
Ma quando sono nelle foreste senza l'uomo, come faranno i pappagalli a parlare?
Tra parentesi io non ho mai visto o sentito un pappagallo che sapesse veramente parlare. Ma che dico: parlare? che sapesse dire mezza parola. In generale è il padrone che sa parlare.
Il pappagallo fa: «Cràcra cràcra».
E il padrone compiaciuto: «Ha detto: "buona sera"».
«Meraviglioso!» esclamano i presenti.
Poi il pappagallo riapre il becco e: «Cracràcra cràcra».
Il padrone estasiato: «Ha detto: "La pappa è cotta"».
E tutti, intorno: «Straordinario».
Del resto è bello, il pappagallo. Ed è un tipo. Questo falso oratore. Questo personaggio a cui fa male, pensate un po', il prezzemolo, al punto da morirne. (Almeno così si dice; perché con le notizie relative ai pappagalli non c'è troppo da metter la mano sul fuoco.)
Circa i pappagalli, mi trovo un po' nella situazione in cui mi trovo nei riguardi di pretesi medium e di individui dotati di facoltà soprannaturali. Sento sempre dire da terzi che fanno cose sorprendenti. Ma disgraziatamente, proprio quando ci sono io, non è il giorno adatto o non stanno in vena, o hanno perduto momentaneamente le facoltà soprannaturali. Certo, non sono mai riuscito a vedere o a constatare le cose straordinarie che mi si raccontano.
Gutenberg o L'invenzione della stampa
Recentemente, chi non lo sa?, è ricorso il centenario della nascita – o della morte, è lo stesso; cioè, non è lo stesso, ma la cosa non ha importanza – di Gutenberg, inventore della stampa. È interessante rievocare come avvenne questa invenzione per dimostrare una volta di più che spesso da una piccola cosa viene fuori una grande idea.
Bisogna dunque sapere che Gutenberg aveva la passione...
«Dei libri» diranno gli incompetenti.
Come poteva avere la passione dei libri, se ancora libri non se ne stampavano? Si facevano libri manoscritti, ma era tutta un'altra cosa.
Dunque, l'ottimo Gutenberg aveva la passione del teatro, ma gli mancavano i quattrini per andarci. Il brav'uomo aveva più volte chiesto biglietti di favore, ma i capocomici gli avevano risposto picche. Ed egli, avendo un certo ingegnaccio per le invenzioni, si scervellava per farne una che gli permettesse di entrare gratis a teatro. In un primo momento gli era venuta l'idea d'un ritrovato che rendesse invisibili le persone, per poter passare non viste sotto gli occhi della maschera. Ma era un'invenzione troppo difficile. Provò con acidi, filtri, pillole ed eliotropi, sempre invano. Veniva visto benissimo e respinto dal controllore che sedeva presso l'entrata. Provò a circondarsi di vapori. Ma, scoperto, fu mandato indietro. Provò a gettare sabbia negli occhi della maschera. Ma fu arrestato.
Né gli sorrideva l'idea di fingersi attore, per passare dalla parte del palcoscenico. Voleva l'invenzione. La trovata semplice e sicura, che gli permettesse di entrare gratis. Si scervellava per questo. Non dormiva la notte.
E finalmente, una sera, ebbe la divinazione, il lampo di genio. Si presenta all'ingresso del teatro e dice semplicemente: «Stampa».
«Stampa!» grida la maschera di rimando.
E lo lascia entrare.
Era la grande trovata.
Così Gutenberg, dopo avere per vario tempo utilizzato l'invenzione per andare a teatro gratis, pensò di perfezionarla e farne altre utili applicazioni, che dovevano in breve portare il suo ritrovato a un alto grado di sviluppo. Cominciò a utilizzarla per stampare libri e, una volta trovata la via, il più era fatto.
Onore a Gutenberg.
Le imitatrici di Cornelia
Scusate, non dovete credere che io sia un gioielliere o comunque un intenditore di preziosi. Me ne intendo come tutti. Molto vagamente; difficilmente saprei riconoscere un brillante vero da uno falso. Però debbo dirvi che, secondo me, la fama di Cornelia madre dei Gracchi è un po' usurpata. Ma andiamo! Quale madre non ha avuto occasione di dire qualche volta dei propri figli: «Questi sono i miei gioielli», senza per questo passare alla storia? Io ho sentito delle madri dire perfino, del figlio: «È il mio tesoro». Non un semplice gioiello, ma tutto il tesoro, addirittura. E nessuno s'è mai sognato di tramandarne la fama alla storia.
Cornelia, invece, c'è passata proprio per aver presentato i propri figli come gioielli.
Il fatto è che in una Roma piena evidentemente di donne ingioiellate, lei voleva dire: «Questi sono i miei veri gioielli, altro che le vostre pietre e pietruzze colorate».
In fondo, avrebbe potuto anche voler dire: «Questi sono i miei unici gioielli. Non ne ho altri». E in questo caso l'avrebbe detto a titolo di recriminazione. Come per dire: «Guardate un po' a che sono ridotta. Questi sono i miei gioielli. Che ve ne pare?».
C'era dunque dell'ironia, nelle parole? Contro tutte le apparenze, direi di no. E questo è importante perché a pronunziarle, cioè a dichiarare di non avere altri gioielli che i due marmocchi, era nientemeno la figlia di Scipione l'Africano, la quale, di gioielli avrebbe potuto averne probabilmente fin che ne avesse voluti. Dunque, nessuna recriminazione, ma, al contrario, orgoglio e soddisfazione.
Comunque, è evidente che la frase, per esser rimasta nella storia, dovette far chiasso a quei tempi. Essa non soltanto consacrò alla posterità Cornelia, ma le procurò anche una grande notorietà in vita. Magari ci sarà stata anche qualche maligna che avrà sorriso di compatimento all'idea che l'illustre dama non aveva altri gioielli che i suoi ragazzi. Ma insomma Cornelia, per la sua discendenza, per la sua posizione nella società, era una dama alla moda. Quindi la frase fece scalpore e fu come un'indicazione per l'appunto sulla moda, limitatamente ai gioielli. Figurarsi le amiche. Crepavano dall'invidia. Non volevano esser da meno. Si misero tutte a scimmiottare Cornelia.