UNO
Delitto: azione criminale perpetrata con dolo o colpa.
Nel nostro elegante quartiere, la notte del 30 maggio, mentre la città era in festa, venivano commessi, quasi simultaneamente, tre delitti. Un incendio doloso, un omicidio, un furto con scasso.
La notte tiepida e serena già anticipava l'estate, una folla esultante per la promozione del Proteo , la squadra di calcio cittadina, si era riversata per le strade: a piedi, dietro lo stendardo vittorioso, scandendo la marcia a colpi di slogan; in auto, manifestando il giubilo con una fanfara di clacson e trombe con i drappi che garrivano fuori dai finestrini. Anche gli artisti erano al lavoro, muniti di secchi e pennelli si impegnavano a decorare muri, saracinesche, marciapiedi, con gli amati colori.
Stefano e il suo cane, un gigantesco pastore maremmano, se ne stavano nella fascia sulle alture, seduto l'uno e sdraiato l'altro, sotto un ulivo. C'era la luna piena, il prato era bagnato di luce fredda, gli schiamazzi arrivavano attutiti. «È la festa dei belinoni Platone, lasciamoli divertire.» Il bestione appoggiò la testa sulle zampe e chiuse gli occhi a significare il suo assenso. «Ma perché poi ti ho chiamato Platone? Aristotele mi è sempre piaciuto di più, da domani ti chiamerò Aristotele!». Il cane ringhiò sommessamente, Stefano rise e si voltò verso il mare. A ponente si levava un chiarore intermittente e irregolare, sembrava un falò. Obbelin il Mare brucia! Mare è il termine colloquiale con il quale la gente chiama il Grand Hotel Mare Nostrum , orgoglio del quartiere, reliquia decadente del tempo in cui questo era una vera città, autonoma e indipendente, testimone del passaggio di turisti illustri, ed ora in preda alle fiamme.
I vigili del fuoco si erano aperti a fatica un varco nelle strade intasate dalle auto dei tifosi; le sirene, sovrastate dalla cacofonia assordante dei clacson, si sentivano appena. Al loro arrivo la cosiddetta Suite delle due Marchese, situata all'ultimo piano dell'ala ovest, era distrutta. Gli idranti erano riusciti a smorzare gli ultimi focolai impedendo che l'incendio si propagasse al resto dell'edificio. Il portiere di notte, al primo divampare delle fiamme, aveva radunato i clienti e il personale sulla terrazza al piano terra, e da qui li aveva condotti al sicuro sul Lungomare. Dopo un convulso appello aveva potuto rassicurare il Direttore che non vi erano state vittime. Al momento dello scoppio dell'incendio due dei tre clienti registrati, un'anziana coppia di svizzeri, si trovavano nella saletta del televisore al pianterreno; assorti nella visione di un vecchio film in bianco e nero, e non si erano neppure accorti di quanto stava accadendo: avevano attribuito il trambusto ai festeggiamenti sportivi e si erano docilmente lasciati condurre in salvo. Il terzo, o meglio, la terza cliente, la signora Luisa Bisso Perego, era fuori a cena con una bella signorina , come aveva detto ironicamente il ragazzo addetto ai bagagli. Tutti erano a conoscenza delle inclinazioni saffiche della signora, la quale quando non trovava di meglio ingaggiava una dama di compagnia – la chiamava proprio così – fra le inserzioniste del Lungomare o del viale della stazione.
La dama di quella sera, che aspettava la signora Bisso Perego nella hall, era una bruna, non più molto giovane, appollaiata su un paio di scarpe da gran sera, dorate col tacco altissimo, fasciata in un abito nero, con inserti leopardati di seta artificiale sui fianchi e avvolta in un'ampia stola di maglina, anch'essa nera, tempestata di paillettes. Le chiome corvine erano raccolte sulla sommità del capo in uno chignon dal quale occhieggiava un fiore scarlatto. Stringeva fra le mani una pochette intonata alle scarpe e ad ogni movimento spandeva per un ampio raggio un intenso effluvio di violetta. La signora Luisa – capelli brizzolati cortissimi, scarpe basse, tailleur-pantalone grigio e sciarpetta di lamé – l'aveva accolta con un sorriso compiaciuto per tanta eleganza, e dopo averla baciata sulle guance era uscita con lei sottobraccio.
Era quasi mezzanotte quando l'urlo agghiacciante di suor Giustina echeggiò per le stanze deserte di Villa Del Pilastro, sede dell'omonimo Istituto Scolastico, poco distante dall'Hotel, sulla strada per la collina. Le suore in preda al terrore erano balzate fuori dal letto; poi, in camicia da notte, scarmigliate e tremebonde, si erano radunate nel luogo da dove era provenuto l'urlo – lo studio della Madre Superiora – al secondo piano, nell'ala nord della casa, dove erano anche le loro stanze. Le più anziane mostravano le sparute capigliature grigie, umiliate da tanti anni di compressione sotto il velo; la più giovane la chioma ancora folta e scura, offesa da sforbiciate maligne. Strette l'una all'altra guardavano con raccapriccio verso il pavimento: la Madre Superiora, suor Ildegarda, giaceva per terra accanto all'inginocchiatoio, con la testa sfondata dalla pesante statua di bronzo della Madonna del Gelo . Tutt'intorno un gran disordine. I cassetti dello scrittoio erano aperti ed il contenuto, sparso alla rinfusa, mostrava che qualcuno vi aveva nervosamente rovistato dentro. Il grande armadio di noce intagliato era stato in parte svuotato e diversi faldoni che vi si trovavano, ora erano vuoti e impilati in un angolo sul pavimento. Erano stati frugati alla ricerca di qualcosa che per l'assassino doveva essere importante, perché il loro contenuto ricopriva interamente il piano del grande tavolo accanto alla finestra. Una cassetta di legno, munita di lucchetto, contenente piccoli oggetti e carte sparse, era aperta su una sedia e non sembrava essere stata forzata.
Suor Giuseppina, la gagliarda e rubesta tuttofare, passato il primo sgomento aveva preso, in mano la situazione. Aveva fatto ingollare una buona dose di Cordiale degli Angeli – quello dei frati del convento di Sant'Onorio che fa miracoli – alla povera Suor Giustina cui era toccata la macabra scoperta, quindi dopo essersi accertata delle sue condizioni, le aveva affidato le sorelle più anziane, suor Margherita e suor Antonia le quali, affette da una grave forma di demenza senile, dovevano essere sorvegliate a vista. Incaricò poi l'intellettuale del gruppo, suor Serafina, maestra diplomata, di telefonare alla Direzione Generale dell'Ordine per comunicare la notizia e ricevere istruzioni. Infine, prima di far sgomberare la scena del crimine, raccomandò di non toccare nulla come aveva imparato dai romanzi gialli che leggeva di nascosto perché credeva ancora nell'esistenza dell'Indice dei Libri Proibiti .
Il vecchio ganimede Oreste Ricci, ex notaio, stava rientrando a casa dopo aver fatto le ore piccole al Cat in Love, un locale del centro dove si recava spesso per i suoi incontri galanti , come amava definirli nel suo linguaggio d'altri tempi. Con lui una ragazzona alta e bionda che aveva l'aria seccata di chi deve compiere un lavoro sgradito e spera di cavarsela in fretta. Lui invece era allegro ed eccitato, parlava forte nonostante l'ora tarda: come sempre l'elisir d'amore, alias citrato di sildenafil, stava facendo il suo dovere contro l'impotentia erigendi. Mentre saliva le scale gustava qualche bocconcino del piatto che avrebbe consumato nel suo appartamento, una strizzatina ai glutei sodi e sporgenti che aveva davanti a sé, un'esplorazione sotto la minigonna della ragazza che allungava il passo. Sul pianerottolo la sgradita sorpresa e l'immediata cessazione dei magici effetti della pillola blu: la porta spalancata, la serratura forzata, quasi divelta. E non sembrava la cosa peggiore: l'appartamento sembrava essere stato attraversato da un uragano, nessuna stanza si era salvata.
Nulla era più al suo posto: mobili spostati, quadri strappati dalle pareti, cassetti rovesciati, contenuto di stipi e armadi sparso sul pavimento, poltrone e materassi sventrati, scaffali svuotati di tutti i libri, molti con le pagine strappate e le copertine staccate. Anche la cucina era stata saccheggiata, sul pavimento stoviglie in cocci, pentole, generi alimentari. Il locale maggiormente devastato, tuttavia, era quello che una volta era stato il suo ufficio, ora chiuso, e non più usato da anni. L'archivio, un modello di ordine ed efficienza, era ridotto ad una montagna di cartacce; in questa stanza l'ignoto vandalo aveva infierito con particolare violenza, strappando e distruggendo tutto ciò che era possibile. Il povero Oreste Ricci con le mani fra i capelli radi e tinti piangeva, ma la ragazza impietosa, lo aveva afferrato per il bavero e lo scuoteva energicamente: pretendeva la tariffa pattuita. Lui si era frugato in tasca e le aveva messo nella mano tesa alcune banconote accartocciate senza neppure contarle. La prosperosa bionda, soddisfatta, si era rapidamente dileguata.
Stefano dormiva nel vecchio lettone che era stato dei suoi avi contadini e dei suoi genitori e nel quale era nato. Accanto a lui il cane Platone che, come sempre, aveva disobbedito all'ordine di non muoversi dal tappeto che costituiva il suo giaciglio notturno. Forti colpi alla porta accompagnati da urla lo fecero drizzare a sedere: si appoggiò ai cuscini e restò fermo per qualche istante con la testa pesante di sonno. Il cane non abbaiava, segno certo che non si trattava di un estraneo. Quando aprì si trovò davanti il conte o, per i più democratici, il professor Alberico Maria Del Pilastro, insegnante di matematica e fisica al Liceo Scientifico Ada Byron e suo amico d'infanzia: pallido, tremante, con lo sguardo allucinato, squassato dai singhiozzi e in preda al delirio.
Stefano e Alberico erano amici dall'infanzia nell'originario significato del termine: l'età in cui ancora non si sa parlare. Alberico era di famiglia nobile: aristocrazia recente, direbbe qualcuno storcendo il naso, non tutti i nobili sono uguali. Stefano era di famiglia contadina; anche questa è una forma di nobiltà, direbbe qualcun altro, e più utile alla società. Erano nati nello stesso anno e nello stesso mese, a qualche giorno di distanza; sotto due distinti segni zodiacali direbbe qualcun altro ancora, e quindi molto diversi fra loro. Sarà. Alberico era figlio unico del conte Agostino Maria e di Sheila Bennett, cittadina britannica non nobile di sangue, ma di carattere e d'aspetto. Anche Stefano era figlio unico: di Luigi Mantero, discendente da un lignaggio di vigorosi contadini, e di Armida Rossi, donna schietta e generosa.
Pare che il capostipite della casata Del Pilastro, Ugo Maria, avesse ricevuto il titolo di conte in un anno non precisato del secolo XVIII, da un Savoia non meglio identificato, per qualche merito di guerra altrettanto vago. La tradizione orale famigliare – più che altro una leggenda, tendente ad avvalorare una maggiore antichità del casato – vantava il possesso di un castello situato in Piemonte e andato distrutto dal fuoco durante una battaglia. In quella tragica occasione erano andati perduti i più antichi e rari documenti di famiglia e tutti i ritratti dei suoi illustri componenti. Dal momento che i Del Pilastro non si distinsero in seguito per meriti militari o civili di qualche rilievo, nessuno storico fu invogliato a compiere ricerche e nessuno contestò le loro affermazioni che erano indifferenti ai più.
Le notizie certe e documentate – il titolo di conte conferito dal re di Sardegna a un Del Pilastro per meriti culturali (ogni famiglia ha la sua pecora nera) – risalivano agli anni '30 dell'800, periodo in cui vennero a stabilirsi nel nostro quartiere, all'epoca una rinomata cittadina balneare. Stabilirono la loro residenza nella grande Villa Del Pilastro che, in virtù di una donazione, sarebbe divenuta in seguito la sede dell'omonimo Istituto Scolastico. La sontuosa dimora era stata fatta costruire dall'allora detentore del titolo, Pietro Maria, con il denaro della ricca dote della moglie, Antonietta Grillo, figlia di un commerciante di spezie e generi coloniali. Da allora la virtù nella quale eccelsero fu la strategia matrimoniale: tutti i Del Pilastro, maschi e femmine (quelle non destinate al convento) si accasarono sempre molto convenientemente con ricchi borghesi che consentirono loro di mantenere la dignità e il prestigio nobiliare.
Tommaso Maria Del Pilastro aveva sposato Giovanna Traverso, figlia di un facoltoso armatore. Dall'unione era nato Agostino Maria, padre di Alberico. Era un uomo di pessimo carattere, arrogante, violento, donnaiolo e scialacquatore. Nel contratto matrimoniale la famiglia della moglie, molto prudentemente, gli aveva accordato un appannaggio sufficientemente adeguato alle sue pretese aristocratiche, salvaguardando però il patrimonio della propria figlia e degli eventuali nipoti. Giovanna si stancò ben presto di lui e si trasferì nel capoluogo, in un elegante palazzetto prospiciente il porto, portando con sé il figlio. Questi, per salvare le apparenze, faceva saltuariamente visita al padre. Dire che fra i due c'era un rapporto difficile è un caritatevole eufemismo. Poche persone, per non dire nessuna, frequentavano volontariamente il vecchio conte Del Pilastro; i suoi rapporti umani erano esclusivamente di servizio, non contava amici fra le sue conoscenze.
Agostino scoprì ben presto la vocazione marinara, interruppe gli studi e cominciò a far pratica sulle navi del nonno materno. La sua carriera di navigante venne bruscamente interrotta dalla guerra. Ma dopo pochi anni, appena tornata la pace, riprese ad andar per mare. Sposò Sheila Bennett – la graziosa e colta figlia di un pastore anglicano, ma libera pensatrice – che aveva conosciuto durante uno dei suoi viaggi. Alberico nacque circa due anni dopo. Per qualche tempo la famiglia rimase in Inghilterra, poi, ancora una volta, si rese necessario il ritorno in patria. A Sheila, cagionevole di salute, venne prescritto un clima più salubre di quello londinese; Agostino Maria dovette lasciare la navigazione per coadiuvare il nonno, ormai anziano, nella conduzione dell'impresa. Giovanna fece appena in tempo a conoscere il nipotino, e dopo qualche mese morì per una febbre cerebrale.
Tommaso Maria, manifestando afflizione per la perdita della consorte – che in vita aveva sempre bistrattato – e colpito da un improvviso attacco di amor filiale e di affetto nonnesco, volle che il figlio si trasferisse con la famiglia nella grande villa. Agostino accettò a malincuore perché non si fidava del padre e sapeva che non avrebbe cambiato carattere e atteggiamenti. Non sbagliava. La vecchiaia non aveva mitigato la sua indole, i suoi vizi anziché attenuarsi si aggravavano diventando sempre più dispendiosi, la rendita di cui disponeva non gli bastava mai ed aveva cominciato a fare debiti. Sperava dunque di ottenere qualcosa dal figlio o, ancor meglio, di mettere le mani, contando su qualche astuto cavillo, sull'eredità della moglie che secondo le ferree disposizioni del contratto matrimoniale non gli spettava.
Fin dalle prime settimane la convivenza fu disastrosa. Il vecchio era stizzoso e irritabile; il piccolo Alberico, che aveva poco più di un anno, lo infastidiva, qualunque cosa facesse. Si innervosiva se piangeva; prendeva a calci i suoi giocattoli se li trovava in giro; non lo voleva a tavola perché i bambini devono mangiare in cucina con la servitù . Persino le sue risate lo disturbavano. Sheila cercava di fargli vedere il bambino il meno possibile, visto che la casa era così grande, ma neanche questo serviva: il vecchio accusava la nuora di volergli tenere nascosto il nipote. Neppure con lei era molto gentile e la insultava in italiano e in dialetto pensando che non capisse. Se non si faceva vedere andava a battere alla porta della sua stanza per darle della maleducata, lagnandosi perché rifiutava di stare in sua compagnia. Agostino era fuori tutto il giorno e la sera era molto stanco, la moglie non voleva affliggerlo. Per un po' sopportò in silenzio anche perché quell'ipocrita in presenza del figlio si comportava molto diversamente: vezze ggiava il piccolo, si mostrava galante con la nuora complimentandola per il suo vestito o per una nuova pettinatura. Neppure la servitù la rispettava: la cuoca, le due cameriere, la donna delle pulizie, fingendo di non capirla – anche se parlava un italia no ineccepibile pur con forte accento britannico – , trascuravano le sue disposizioni, non obbedivano agli ordini, si rivolgevano a lei solo in dialetto
Fuori casa le cose non andavano meglio. A dispetto della loro fama di navigatori e mercanti, che nei secoli hanno girato il mondo per mare e ne hanno scoperto anche qualche angolo nascosto, i nostri concittadini sono diffidenti e poco ospitali con chi viene da fuori. Sheila era una forèsta , una straniera, e come tale veniva guardata con sospetto. I vicini di casa non la degnavano neppure del saluto, nei negozi, nonostante spendesse con larghezza, veniva trattata bruscamente. Alla passeggiata a mare le altre madri con bambini piccoli come il suo, che amavano far crocchio per scambiarsi consigli e chiacchiere, la isolavano ostentatamente. Una buona parola ce l'aveva messa anche il parroco, don Sandro, che poco dopo il loro arrivo, in una predica domenicale, aveva additato i giovani coniugi Del Pilastro, sposati civilmente a Londra, come concubini e, per buona misura, la donna come eretica inglese.
Le uniche persone che le avevano dimostrato simpatia e amicizia erano Luigi e Armida, i genitori di Stefano. Luigi si occupava periodicamente della manutenzione del parco della villa e del rifornimento di frutta, ortaggi, latte, uova, pollame ed altri prodotti provenienti dalla loro fattoria e dai loro terreni in collina. Armida era lavandaia, stiratrice, guardarobiera, frequentava la casa più spesso del marito e con regolarità. Era una ragazza sveglia e perspicace, le era bastato poco per capire come stavano le cose e – poiché non aveva timore di niente e di nessuno e non sopportava le cose storte – un bel giorno si fece ricevere da Agostino e gli spiattellò senza tanti giri di parole la verità. Lo mise al corrente di quello che avveniva in casa, nella strada e in parrocchia. Da quel giorno le cose cambiarono. La servitù fu drasticamente ridotta e l'organizzazione domestica mutò radicalmente. Al vecchio venne assegnata una donna di servizio che si sarebbe occupata delle sue necessità personali e della pulizia della sua parte di alloggio; la famiglia si sistemò in una parte della casa lontana dalle sue stanze, con cucina e ingresso indipendente. L'orario di Armida fu aumentato e le venne assegnata anche la mansione di cuoca; tre volte la settimana una donna veniva per le pulizie. Poiché tutte le spese erano sostenute da Agostino, il vecchio dovette far buon viso a cattiva sorte, anche perché il figlio gli aveva presentato i cambiamenti in maniera non proprio cortese e amichevole: o sbragiava còmme 'n màtto , urlava come un pazzo, come riferì Armida. La parrocchia venne privata senza preavviso della generosa donazione annuale che tradizionalmente la famiglia Del Pilastro elargiva e che costituiva una porzione notevole delle sue entrate. Don Sandro aveva capito di aver fatto un grave errore offendendo un peccatore tanto generoso; umile e strisciante aveva quindi chiesto di essere ricevuto da Agostino per rimediare, ma appena varcato il cancello era stato costretto alla fuga dal ringhioso Ferox, il cane – di razza non identificata, ma dal nome eloquente – che montava la guardia alla casa. La vita per Sheila cambiò radicalmente: Armida per lei non fu una persona di servizio, ma un'amica, anzi una sorella. Le fu permesso di portare con sé alla villa il suo bambino, Stefano, che aveva la stessa età di Alberico. Sheila si occupava di entrambi mentre Armida lavorava, divenne in pratica l'istitutrice dei due bimbi. Poiché si rivolgeva a loro anche in inglese i due piccoli impararono presto la lingua; insegnò a tutti e due a leggere, a scrivere, a contare, a suonare il flauto, a dipingere. I bambini crescevano insieme, scorrazzavano nel parco della villa esplorandone ogni anfratto in avventure ogni giorno diverse che la loro fantasia infan tile caricava di mistero. Ai primi tepori scendevano in spiaggia e Sheila, che aveva la pelle chiara e delicata ricoperta di efelidi, si esponeva gradatamente ai raggi del sole per evitare guai nella stagione più calda. L'acqua era ancora gelida ma qualch e rapida immersione era d'obbligo, erano i bei tempi in cui la balneazione sulle spiagge cittadine era ancora possibile. Un altro grande divertimento era per i due bambini il tempo passato in campagna. Luigi aveva deciso che ormai erano uomini e dovevano guadagnarsi il pane: li portava con sé nella stalla a mungere le mucche, a dar da mangiare ai conigli e ai polli, alla vendemmia, a pigiare l'uva con i piedi, ad accatastare la legna: appena furono più grandicelli insegnò loro anche a guidare il carro. Ma soprattutto era il loro maestro di dialetto: proverbi, modi dire, vecchie filastrocche, canzoni e… parolacce sulle quali dovevano mantenere il segreto con le rispettive madri. Ora Sheila non aveva più bisogno di nessuno, questi cari amici e la famiglia le bastavano. Era una persona riservata e non amava la vita di società, si limitava ai doveri che la posizione del marito le imponeva e che non erano né troppi né troppo onerosi. Nei suoi rapporti d'affari infatti Agostino si regolava all'antica, con la parola d'onore e la buona reputazione, non aveva bisogno di ingraziarsi nessuno con pranzi e ricevimenti di rappresentanza né con amicizie e frequentazioni interessate. Le due giovani stavano bene insieme nonostante le differenze di cultura e di educazione. Armida era intelligente e curiosa e imparava tante cose da Sheila, che l'aveva iniziata alla lettura e all'ascolto della musica; mentre lei stirava o cucinava le faceva ascoltare dei brani d'opera e di musica classica o le leggeva un libro. Paradossalmente, lei che era inglese le insegnava anche a parlare correttamente l'italiano. Armida non era da meno nell'impartire lezioni, meno teoriche ma non per questo meno utili. Le aveva insegnato a cucinare, perché da voi si mangia della rumenta , le aveva detto senza tante cerimonie, e anche a cucire, perché se ti si sguarano le braghe non puoi andare col culo di fuori . Soprattutto le aveva insegnato il dialetto nelle sfumature più sottili pe no fâse marmelâ, per non farsi imbrogliare, ma anche nelle espressioni più forti per ottenere rispetto quando era il caso. Il vecchio Tommaso Maria invece mal tollerava, e se ne capirà il perché, la sistemazione che il figlio gli aveva imposto anche se non gli costava nulla, almeno economicamente. La sua donna di servizio, Luigina Rossi, – zia di Armida che l'aveva maliziosamente raccomandata – era una virago di mezza età, corpulenta e leggermente baffuta, caratteristica questa che le conferiva l'autorità necessaria per affrontare il padrone su un piano di assoluta parità. Appena arrivata aveva stabilito le sue condizioni indiscutibili e inderogabili, prendere o lasciare, anche perché come aveva spiegato non c'era la coda davanti al cancello per accaparrarsi questo posto. Per prima cosa aveva scelto la sua stanza – rifiutando quella che le era stata assegnata – e fatto richiesta di alcuni arredi che riteneva necessari; poi aveva stabilito l'orario di lavoro: dalle sette del mattino alle otto della sera con un'ora di intervallo per il pranzo perché non voleva mangiâ de strangògion , mangiare in fretta. Avrebbe servito la cena al padrone alle sette; alle otto e un minuto avrebbe provveduto alla propria e non voleva essere disturbata. Prima e dopo quei limiti, ripeté più volte durante il primo incontro, non avrebbe preso in considerazione nessuna richiesta per modesta che fosse. Specificò che il suo datore di lavoro era il conte giovane , l'unico al quale doveva render ragione, e ogni lamentela doveva essere rivolta a lui. Per quanto riguardava il vitto fece sapere che aveva a disposizione una somma rigidamente stabilita, ogni sforamento sarebbe stato compensato con una riduzione successiva per far quadrare i conti fìnn – a l'ùrtimo cìtto , fino all'ultimo centesimo. Passò poi all'elenco delle norme igieniche. Se voleva fumare doveva farlo fuori, se lo avesse fatto in una qualunque stanza lei non ci sarebbe più entrata, tanto meno per le pulizie perché anche solo l'odore del fumo le impediva di respirare. Doveva farsi il bagno due volte la settimana da solo, perché lei non era un'infermiera, cambiarsi la biancheria tutti i giorni e, tanto per restare in argomento, niente porcate nel cesso : se la mira non era più quella di una volta avrebbe fatto bene a sedersi; per finire gli illustrò funzioni e utilità dello sciacquone. Ultimo avvertimento il comportamento morale: niente parolacce e mani a posto, qualunque fosse l'uso che volesse farne, in caso contrario sapeva lei come fargli passare la voglia. Il vecchio Tommaso Maria rimase di stucco, nessuno aveva mai ostato parlargli in quel modo, ma dovette fare di necessità virtù perché l'alternativa era rimanere solo come un cane e arrangiarsi. Il progressivo venir meno del vigore virile, dovuto alla vecchiaia, lo aveva costretto a rinunciare al principale dei suoi vizi; aveva così limitato al solo gioco d'azzardo la ricerca delle forti emozioni con le quali riempiva la sua vita solitaria e inutile. Fino a che le forze glielo avevano concesso era stato un assiduo frequentatore di casinò, poi l'avanzare dell'età e il progredire degli acciacchi avevano fortemente limitato le sue possibilità di spostamento per cui si era dato a bazzicare certi locali cittadini dove, più o meno clandestinamente, si giocava a carte e si facevano scommesse. La sua dabbenaggine aveva arricchito non pochi giocatori di professione e tenutari di bische fino a che, per pagare i debiti, era cominciata l'erosione del capitale. La sua ultima speranza era quella di poter attingere, avvalendosi di qualche cavillo, all'eredità della moglie. Più volte si era presentato allo studio del notaio Ricci, che curava gli affari di famiglia: lo aveva implorato, blandito, minacciato, non si era fatto scrupolo di proporgli falsificazioni di documenti né di mettere in atto tentativi di corruzione. La risposta era stata sempre negativa, non tanto per l'integrità morale del notaio, la cui fama non era proprio limpida, ma piuttosto in virtù della lungimiranza del vecchio armatore Giobatta Traverso, suo suocero, e dell'abilità dei suoi legali che avevano costruito, a protezione degli interessi della figlia e del nipote, una roccaforte inespugnabile. Un giorno Agostino venne chiamato con urgenza dal direttore della sua banca: qualcuno si era presentato allo sportello con un assegno firmato da lui per riscuotere una somma assai rilevanteIl cassiere, giudicandolo fortemente sospetto, lo aveva bloccato. Non aveva torto, perché la firma era falsa. Il vecchio Tommaso Maria, in ritardo con i pagamenti dei suoi debiti di gioco, era stato minacciato dal tirapiedi di un biscazziere: ormai frequentava solo locali di infimo ordine perché quelli che ancora conservavano una parvenza di rispettabilità, dopo averlo prosciugato, lo avevano bandito. Disperato aveva sottratto un assegno al figlio e ne aveva falsificato la firma. Questi contenne a stento la sua ira e, non volendo dare scandalo, diede il consenso al pagamento ma, appena tornato a casa, affrontò il padre. Lo costrinse alla vendita immediata di alcune obbligazioni per recuperare la somma che gli era stata sottratta; pagò l'ultimo salario alla sua arcigna governante e gli annunciò che da quel momento doveva cavarsela da solo. Il vecchio, fuori di sé dalla collera, urlò che lo avrebbe cacciato di casa assieme alla sua puttana e al suo bastardo , ma non poté avere questa soddisfazione perché Agostino aveva già predisposto il proprio trasferimento. In occasione delle sue nozze, la madre aveva acquistato per lui un antico palazzetto che sorgeva sulla piazza alberata al centro del quartiere; tutti gli appartamenti erano stati dati in affitto ad eccezione di quello situato al piano nobile. Era stato abitato solo per pochi mesi perché Agostino, al suo ritorno dall'Inghilterra, aveva accettato l'invito di trasferirsi nella villa di famiglia – rimanendovi per qualche anno – per un residuo scrupolo di coscienza che gli impediva di lasciare da solo un vecchio. Ora finalmente era arrivata l'occasione per andarsene senza rimorsi. Il trasferimento fu gradito a tutti, alla famiglia e al personale di servizio. Non si correva più il rischio di imbattersi into vegiô mogognòn, nel vecchio brontolone. La casa, benché molto spaziosa, era più piccola e più facile da governare; ristrutturata e arredata secondo criteri moderni e razionali, era ben riscaldata e luminosa. Agostino, per fare una sorpresa alla moglie, aveva ceduto finalmente alle lusinghe della modernità e l'aveva dotata di tre apparecchi straordinari che lasciarono Armida letteralmente a bocca aperta: un televisore, un frigorifero e una lavatrice semiautomatica. L'unico scontento fu Alberico, che allora aveva circa sette anni: appena seppe del trasferimento pianse disperatamente pestando i piedi e gridando che non ci voleva andare, che quella casa era bruttissima anche se non l'aveva mai vista. In verità non era la vecchia casa che rimpiangeva, ma il parco, il suo regno, il paese delle sue avventure fantastiche dove scorrazzava con Stefano, ma anche da solo, per ore ed ore, lontano dagli adulti, al riparo dei loro incomprensibili capricci. Fu un distacco che lo segnò per sempre; più volte, ormai uomo fatto, ritornò ad esprimere la dolente nostalgia per il suo paradiso perduto, novello Adamo, ma senza peccato alcuno, scacciato dall'Eden. Il giorno del trasferimento – mentre tutti erano indaffaratissimi a spostare scatoloni e ceste, a sorvegliare il lavoro dei traslocatori, ad ispezionare ogni angolo per esser certi di non aver dimenticato nulla – Alberico chiese il permesso di fare un ultimo giro attraverso il parco, ottenendo un distratto consenso, e sparì. Le operazioni di sgombero, iniziate il mattino presto, si erano protratte fino al primo pomeriggio. Si era ormai in autunno inoltrato, ma la giornata era tiepida e soleggiata, Armida aveva preparato un pranzo freddo che fu consumato in un picnic sul grande prato dietro la casa. Sheila voleva andare a cercare Alberico per farlo mangiare, ma Agostino suggerì di lasciarlo stare: era l'ultimo giorno in cui poteva vagare per il parco, se avesse avuto fame sarebbe tornato da solo. Ma non tornò. Era ormai giunta l'ora di andar via e il bambino non si vedeva. Il padre lo cercò inutilmente in ogni angolo del giardino e della casa. Sheila disperata, in preda ad una crisi isterica, gridava e si batteva il petto, tanto da chiamare il medico di famiglia che le somministrò un calmante e la fece adagiare sull'erba, sotto un leccio frondoso che si innalza va in un angolo del prato. Per non lasciare nulla di intentato le ricerche continuarono anche fuori della villa, negli immediati dintorni e lungo il viale alberato: sia nella direzione che portava al bosco, che ricopriva la sommità della collina, sia in quella che conduceva al centro del quartiere. Fu percorsa anche tutta la passeggiata a mare: nessuno lo aveva visto. La faccenda cominciava ad essere preoccupante, il sole era tramontato e presto sarebbe calato il buio; Sheila con molte cautele fu fatta salire in auto e portata alla nuova casa, Armida restò con lei. Agostino pensò seriamente di rivolgersi ai carabinieri, ma prima chiamò in soccorso Luigi Mantero: insieme, armati di torce, avrebbero proseguito le ricerche in un ultimo tentativo. Ritornarono alla villa perché erano convinti che il bambino non fosse uscito. Decisero di partire dal prato, sul lato posteriore della casa, da lì si sarebbero inoltrati nel boschetto prendendo direzioni diverse, ma non fu necessario. Appena arrivati udirono la voce di Alberico: «Aiutatemi! Non riesco più a scendere!» scendere!» Luigi scoppiò in una fragorosa risata: «Aspetta gattino che chiamiamo i pompieri!» Agostino, a dire il vero, cominciò ad imprecare in italiano, in dialetto e persino nella lingua di Shakespeare. Luigi si a rrampicò sull'albero, lui sì come un gatto, e recuperò il bambino impaurito, affamato, infreddolito e lo sottrasse all'ira del genitore che voleva f argli le chiappe rosse a suon di sculaccioni . Più o meno in quegli anni qualcuno aveva raccontato le vicende di un altro bambino ribelle – anch'egli di nobili origini, un barone – che era salito su un albero, però non ne era più disceso. Ma quello era un personaggio di fantasia. Stefano in quell'occasione non era presente, era a letto con la faccia e il corpo ricoperti dalle pustole della varicella, sorvegliato dalla Marietta che era allora un'adolescente. La vicenda gli fu raccontata da Alberico stesso qualche tempo dopo, ma se la sentì ripetere nel corso degli anni infinite volte, soprattutto nei momenti in cui l'amico veniva afferrato dalla melancolia – lui odiava il termine depressione: troppo plebeo. La risposta era sempre la stessa: « Ciantila lì Cöximo !» (Finiscila Cosimo), in riferimento a quel tal barone arboricolo.