Sei una bestia Viskovitz

09.02.2025

Uomini o bestie?

Un inclassificabile libro, riconducibile, per vaga parentela, ad illustri ascendenti quali le calviniane Cosmicomiche, o le faticose avventure evoluzionistiche del ben noto grande uomo scimmia del Pleistocene, una certa aria di famiglia si può notare anche nei Dialoghi impossibili di Nicolò Targhetta che ho recensito poco tempo fa.
Tanto per orientare chi legge queste righe, il libro si può definire una strampalata, surreale, anacronistica (termine molto approssimativo) pseudo, ma non troppo, storia evoluzionistica. Il protagonista è Viskovitz, una bestia, nel senso migliore del termine; veramente sarebbe meglio dire i protagonisti, perché di Viskovitz ce n'è più d'uno; questo proteiforme personaggio infatti, è di volta in volta, nei venti racconti che compongono il volume, una lumaca con due sessi, un pappagallo che parla d'amore, un leone "contro natura", invaghito di una gazzella, un camaleonte in crisi di identità, un verme, uno scarafaggio... Ma ciò che davvero Viskovitz rappresenta, sotto queste bizzarre e improbabili spoglie animali, siamo noi, gli esseri umani con tutte le contraddizioni laceranti che ci contraddistinguono, colti nella tragica, disperata, ma non seria, condizione esistenziale in cui ci dibattiamo, nella quale il sesso - nelle forme più varie e bizzarre - con buona pace di certi moralismi ispirati "alla natura", è l'ossessione dominante e necessaria per la consolazione individuale e per la sopravvivenza della specie. Ancora una volta, il surreale e l'ironia sono il mezzo migliore per, se non spiegare, almeno rappresentare la realtà. Si ride per riflettere.

Sfogliando il libro

Stai perdendo la testa, Viskovitz «Com'era papà?», chiesi a mia madre.
«Croccante, un po' salato, ricco di fibre».
«Prima di mangiartelo, voglio dire».
«Era un tipino insicuro, ansioso, nevrotico, un po' come tutti voi maschietti, Visko».
Mi sentivo più che mai vicino a quel genitore che non avevo mai conosciuto, che si era disciolto nello stomaco di mamma mentre venivo concepito. Da cui non avevo ricevuto calore, ma calorie. Grazie papà, pensai. So cosa significhi, per un mantide, sacrificarsi per la famiglia.
Mi fermai un attimo in raccoglimento davanti alla sua tomba, cioè a mia madre, e recitai un miserere.
Dopo un po', poiché pensare alla morte non mancava mai di procurarmi un'erezione, giudicai che fosse arrivato il momento di raggiungere Ljuba, l'insetto che amavo. L'avevo conosciuta circa un mese prima, al matrimonio di mia sorella, che era poi anche il funerale di mio cognato, ed ero rimasto prigioniero della sua crudele bellezza. Da allora avevamo continuato a vederci. Come era stato possibile? Dio mi aveva benedetto col dono più caro a noi mantidi: l'eiaculazione precoce, condizione necessaria di ogni non effimera storia d'amore. Nella prima settimana avevo perso solo un paio di zampe, le raptatorie, nella seconda il prototorace con gli annessi per il volo, nella terza…
«Non farlo, Visko, per l'amor del cielo!», cominciarono a urlarmi i miei amici Zukotic, Petrovic e Lopez, appollaiati sui rami più alti. Per loro la femmina era il demonio, la misoginia una missione. Erano sessualmente deviati o disfunzionali fin dalla metamorfosi, avevano preso i voti del sacerdozio e passavano tutto il santo giorno masticando petali e recitando salmi. Erano molto religiosi.
Ma non c'era preghiera che potesse fermarmi, non ora che sentivo il sospiro gelido della mia bella, il cupo fruscio delle sue membrane, il suo funebre sogghigno. Mossi freneticamente in direzione di quei suoni, con l'unica zampa che mi era rimasta, puntellandomi sulla mia erezione, sforzandomi di visualizzare la gloria delle sue forme, ora che non potevo vederle perché non avevo più ocelli, ora che non potevo odorarle perché non avevo più antenne, ora che non potevo baciarle perché non avevo più palpi.
Per lei avevo ormai perso la testa. 

Ma non ci pensi mai al sesso, Viskovitz? Il sesso? Non sapevo neanche di averne uno. Figuratevi quando mi dissero che ne avevo due.
«Noi lumache, Visko», mi spiegarono i miei vecchi, «siamo ermafroditi insufficienti…».
«Che schifo!», strillai. «Anche noi di famiglia?».
«Certamente, figliolo. Siamo in grado di svolgere sia la funzione maschile che quella femminile. Non c'è nulla di cui vergognarsi». Con la radula mi indicò dove si trovavano i due arnesi.
«E perché mai insufficienti?».
«Perché possiamo accoppiarci solo con altre lumache, se esiste una reciproca inclinazione, e mai con noi stessi».
«E chi lo dice?».
«La nostra fede, Visko. L'altra brutta cosa è peccato mortale anche solo pensarla», ammonì babbomamma.
«Ed è comportamento impuro anche il chiudersi troppo nel guscio, il parlare tra sé e sé e l'autocompiacersi», aggiunse mammababbo.
Un brivido di terrore mi increspò il mantello.
«Sarebbe ora che tu cominciassi a guardarti intorno per un buon partito, la stagione riproduttiva dura solo poche settimane».
Allungai perplesso i tentacoli nelle varie direzioni.
«Ma le lumache più vicine sono a mesi di cammino!».
«Sbagli, figliolo, ci sono degli ottimi giovani proprio qui nel vicinato».
Ma lì intorno vedevo soltanto Zucotic, Petrovic e Lopez, i miei vecchi compagni di scuola.
«Volete scherzare. Non vorrete mica che io…».
«Vengono da buone famiglie, con un discreto patrimonio genetico e buone prospettive di successo evolutivo. La bellezza non è tutto, Visko».
«Ma li avete visti bene?». Puntai il tentacolo rinoforo verso Zucotic, un gasteropode scarno, dal guscio praticamente clipeiforme, l'occhio invaginato, il ctenidio atrofico. Faceva schifo anche ai predatori. Davvero volevano avere dei nipoti così?
«Col tempo cambierai idea, vedrai. Noi lumache abbiamo un detto: "Ama il prossimo tuo, che chi è lontano resterà tale"».
«Piuttosto morto». Salutai e mi ritrassi per bene nel nicchio. Tappai con cura l'opercolo e lo sigillai con sali calcarei, perché non si poteva mai sapere.
«Non sta bene tapparsi così nel guscio, Viskolino, la gente penserà male». Al diavolo la gente. 

Chi ti credi di essere, Viskovitz
Chi ti credi di essere, Viskovitz
«Chi sono io?», mi domandavo. Non trovando risposta chiesi a mio padre.
«Dipende dal contesto», mi spiegò. «Noi camaleonti siamo come la pausa tra due parole».
«E… la nostra personalità?».
«Che te ne fai di una personalità, figliolo, quando puoi averle tutte? A che ti serve essere te stesso quando puoi sedurre saure fantastiche, ottenere bei voti a scuola e far scappare i tuoi rivali semplicemente dicendo che sei un altro? Prendi esempio da me, che oggi sono il tuo babbo e domani chissà».
Era sempre la stessa storia. Bastava rimescolare un po' i colori e gonfiare i diverticoli polmonari per assumere l'aspetto di chi volevi, sicché non potevi fidarti di nessuno, neanche dei parenti. Non a caso in famiglia avevamo tutti un nome che finiva con un punto interrogativo. Io stesso mi chiamavo «Viskovitz?».
«Non so più in cosa credere, papà, sono confuso…».
«Bravo, figliolo, se sei confuso sei già un camaleonte in gamba. È meglio che il segreto della nostra esistenza non venga svelato, "Visko?". Soprattutto a certi serpenti. Adesso sbrigati, è ora di andare a scuola».
«A scuola? Che accidenti ci vado a fare? Ci danno solo lezioni di lingua».
«Bene, così imparerai a esprimerti senza appiccicarmela in fronte».
«Papà, ti assicuro che per la padronanza della lingua fa meglio un bel bacio di tante ore di scuola».
«Non voglio sentirti parlare di baci, " Visko?". Sai che sono pericolosi, che legano. Con le femmine è bene non invischiarsi».
«Oh, bella, e se sei innamorato?».
«Beh, allora sei nei guai, figliolo. Non c'è sventura peggiore per noi camaleonti».