Mosche d'inverno

Tanatografie
Chi percorre sentieri solitari e impervi è ripagato dalla fatica col ritrovamento di fiori rari che non a tutti è dato di apprezzare. Uno è questo libro, definito una raccolta di tanatografie, (che sarebbero poi il contrario delle biografie ), storie che, per quanto l'agonia si prolunghi, sono necessariamente brevi. Mai titolo fu più esplicito e poetico: Mosche d'inverno. 271 morti in due o tre pose.
Sfogliando il libro
Raymond Radiguet
Parigi, 12 dicembre 1923. Va di fretta. (Strano, perché, al dire di Cocteau, è così pigro che per obbligarlo a scrivere bisogna chiuderlo a chiave nella stanza). In marzo ha pubblicato il suo primo e ultimo romanzo, che ha venduto la bellezza di cinquantamila copie in appena quindici giorni. Consuma i mesi come se fossero anni. Brucia la gloria nelle nuvole dell'oppio e sui letti disfatti. Scaricata Marthe, che nel romanzo moriva di parto e adesso muore d'amore [...], messo alla porta il povero Cocteau, che fra le sue braccia aveva trovato la giovinezza e adesso si consuma nella gelosia, si è barricato in una suite dell'hotel Foyot [...].
E oggi? Oggi se ne va in fretta. Muore fra oscuri dolori nella clinica del XVI arrondissement dove l'hanno trasferito d'urgenza dall'albergo. Che cosa è stato a rubargli la vita? Chi dice la febbre omicida che dà il tifo. Chi dice il tempo, che infatti fugge come un ladro. Aveva vent'anni.
Georg Trakl
Ospedale di Cracovia, 3 novembre 1914. Il cuore gli si ferma nel miserando padiglione psichiatrico in cui è stato ricoverato. Ha abusato dell'oppio nei bordelli di Salisburgo, del cloroformio nella farmacia in cui è stato praticante e della sua vita quando era vivo. Solo la poesia non l'ha tradito, ma questo non lo sa. Gli mancano due mesi per compiere ventotto anni, [...]. Gli mancano tre anni per sapere che sua sorella Greta, che lo ha baciato per la prima volta nel buio, mentre ascoltavano il primo coro del Tristano , si ucciderà con la pistola. Nessuno lo accompagna alla tomba, tranne quel devoto minatore di Hallstadt che gli faceva da attendente.
Umberto Boccioni Sorte, Verona, 17 agosto 1916. Mai capitare in un posto con quel nome. Lui, a morire per un tiro della sorte, ce l'ha sospinto la guerra. Si era arruolato volontario, si era vestito in fretta da soldato, e oggi se ne va a trentaquattro anni. Cade dal cavallo che sta imparando a montare, batte la testa piena di colori e non si rialza più. Muore come Maria Malibran, poco più esperta di lui, e Gengis Khan, che a cavallo era nato. Muore con un sogno: non di annientare il nemico sul campo di battaglia, ma di andare al trotto con lei sotto la luna che imbianca il lago. Gli dèi lo sorvegliavano dall'alto dei cieli. Ha la mano speciale di un futuro maestro della pittura. Ha un corpo agile da seduttore. Margherita Sarfatti, che a letto con lui c'era stata, deplorerà piccata la piccante escalation delle sue prede, prima sartine e poi mogli di direttori di banca. Tre settimane prima, sulle rive del lago Maggiore, ha incontrato Vittoria Colonna e si è innamorato per l'ultima volta. Lei, bella, maritata, capricciosa e ghiotta della vita, lo ha riamato all'istante. Hanno nuotato in quelle acque dal colore, il blu cobalto, verso cui va virando la tavolozza di lui mentre ritrae il maestro Busoni. Pigri come i gatti, hanno preso il sole sulla terrazza della villa, quel minuscolo lembo di terra che lei ha trasformato in un giardino dell'Eden. Hanno cenato soli al lume di romantiche candele. Addosso gli trovano l'ultima lettera di lei, che si è portata via dal loro paradiso.
Marie-Anne-Charlotte Corday Parigi, piazza della Rivoluzione, 17 luglio 1793. Sale il patibolo senza un rimpianto. Senza un lamento offre alla ghigliottina il suo collo di ragazza (ha venticinque anni). È una piccola normanna di buona famiglia, condannata per nascita e indigenza al celibato o al convento: «una donna inutile, cui una vita più lunga non sarebbe servita a nulla», come ha dichiarato candidamente ai giudici il giorno prima. È così inutile che, nel dipingere su commissione della Convenzione quel quadro che tutti ricordano, Jacques-Louis David se l'è dimenticata. C'è lui, Marat, quel bell'atleta dal corpo muscoloso, riverso sul bordo della fatidica vasca, c'è il telo macchiato dal suo sangue, c'è la lettera che gli ha scritto nella sua grafia di letterata maliziosa («Basta che io sia infelice per avere diritto alla vostra benevolenza»), c'è il coltello da cucina col manico d'avorio che ha comprato per quaranta soldi nella bottega di Badin, sotto i portici del Palazzo Reale, ma non lei, la piccola normanna che ha trucidato il grande Amico del Popolo.

Ritratto di Charlotte Corday eseguito da Jean-Jacques Hauer, probabilmente il 16 luglio 1793 alla Conciergerie. Il dipinto fu eseguito su richiesta della stessa Corday al Tribunale Rivoluzionario.
Dino Campana Manicomio di Castel Pulci, Firenze, 1 marzo 1932. È un omone dai capelli rossi, che in un mondo di pallidi tracagnotti si crede l'incarnazione del Superuomo di Nietzsche e che il suo libro, rifiutato dagli editori e pubblicato a spese sue, lo ha dedicato al kaiser Guglielmo II. In Belgio ha temprato la lama a falci e coltelli. Ha suonato il triangolo in una banda della Marina argentina. In Svizzera, con quelle mani da poeta, ha ammucchiato terrapieni. Ha acceso il fuoco sui bastimenti commerciali e lo ha spento sui tetti delle case di Buenos Aires. «Non posso stare in nessun posto», aveva assicurato, ma da quattordici anni, da quando lo hanno rinchiuso quaggiù, ha trovato la sua casa. «Tragico asilo», la chiama il Binazzi, pio letterato, ma lui risponde che ci sta benissimo e che spera di non uscirne mai. «Siete un infelice di genio», gli dice, ma lui risponde: «Io no, signore. Io non sono infelice».
Una settimana prima, nello scavalcare una recinzione di filo spinato, si è procurato una ferita che astutamente si è infettata e oggi lo finisce. Esercitato nella vaghezza, muore all'ora stabilita dal puntiglioso Destino.
https://it.wikipedia.org/wiki/Dino_Campana
Alfonso II, duca d'Este Ferrara, Palazzo Ducale, ottobre 1597. Ha gli occhi pallidi di un pesce degli abissi. Ha il volto color del trucco che si squaglia. Non lascia eredi per colpa di un torneo. Nell'estate di quarantun anni prima, a Blois, il cavallo che montava nei panni del fiero Mandricardo si è imbizzarrito e gli è franato addosso, lasciandolo «tutto pesto e livido» e anche, si dice, incapace di procreare. La camera in cui agonizza è stata aperta a tutti, perfino ai servitori. Chi gli tira la barba, chi gli «mena le mani per il volto», chi gli sussurra all'orecchio vituperi impubblicabili. La mattina del 27, quando i medici lo dichiarano morto, ha preso una posa da sarcofago prima di entrarci, ma si sbaglia. Siccome non entra nella cassa, c'è sì chi propone di allungarla, ma anche chi vorrebbe accorciare le gambe a lui. Scampato a quell'oltraggio, ne subisce un altro: viene condotto alla sepoltura di notte, come un ladro, e lasciato a languire per settimane in una fetida legnaia prima di essere inumato. Là, disfacendosi, il suo corpo deperibile trascina nella rovina quello perpetuo dello Stato. Già. Tre mesi dopo, nel gennaio dell'anno nuovo, il Ducato passa per devoluzione nelle mani guantate del papa.