La grande Beune
Questa storia, che si presenta come un romanzo breve o racconto lungo, è in realtà l'inizio di un romanzo che non venne mai terminato; una sorta di narrazione iniziatica, un viaggio agli inferi, premessa alla vita adulta, che vede un giovane maestro, al suo primo incarico, in un borgo sperduto, dove il tempo sembra essersi fermato. È a Castelnau che fui chiamato in servizio, nel 1961: anche i diavoli vengono chiamati, suppongo, nei Gironi del basso mondo; e di capriola in capriola avanzano verso il buco del cratere come noi scivoliamo verso la pensione. Non ero ancora caduto del tutto, era il mio primo impiego, avevo vent'anni. A Castelnau non c'è la stazione; è in mezzo al nulla; qualche corriera […] ti ci scarica la sera tardi, alla fine del suo giro. Ci arrivai di notte, decisamente inebetito, in mezzo a un galoppo di piogge settembrine imbizzarrite contro i fari...
In questo luogo, ancestrale e simbolico, gli uomini parlano un "dialetto greve", hanno barbe senza tempo, sono pescatori e cacciatori primitivi che si procurano la vita con la morte, cruenta e impietosa, di altre creature, la locandiera sembra una Sibilla, il fiume, la Grande Beune, gli appare come un buco dove scorrono acque impetuose e fangose; le suggestioni del paesaggio, richiamano la vita degli uomini delle caverne (siamo nei pressi di Lascaux) e le riflessioni sulla crudeltà, lato oscuro della civiltà. Qui il protagonista vive una passione primordiale per una donna che egli percepisce come una divinità arcaica e sensuale, un'esperienza di crudele esasperato erotismo primitivo e magico.
La grandezza del racconto, tuttavia, non sta solo nel contenuto, ma, soprattutto, nella lingua, potentemente evocativa, sciamanica, capace di avvolgere il lettore in un incantamento ipnotico e di trasportarlo in un mondo atavico e misterioso.
Sfogliando il libro
[…] la sala comune [...] era rivestita di quell'intonaco color sangue di bue che un tempo si chiamava rosso antico ; si sentiva odore di salnitro; alcuni bevitori, seduti, a tratti rompevano il silenzio per parlare ad alta voce di fucilate e pesca con la lenza; si muovevano in una luce fioca che disegnava sulle pareti le loro ombre; se alzavi lo sguardo, una volpe impagliata ti fissava da sopra il bancone, con la testa aguzza energicamente girata verso di te ma con il corpo che sembrava correre lungo la parete, come in fuga. Di notte, l'occhio di quell'animale, le pareti rosse, la parlata aspra di quegli uomini, le loro parole arcaiche, tutto contribuì a trasportarmi in un passato indefinito che non mi diede alcun piacere, ma piuttosto un vago terrore che si aggiungeva a quello di dover presto affrontare degli scolari: quel passato mi parve allora il mio futuro, e quei pescatori dall'aria losca presero l'aspetto di traghettatori che mi stavano imbarcando sull'orrenda bagnarola della vita adulta e che, una volta al largo, mi avrebbero depredato e gettato fuori bordo, sghignazzando nell'oscurità, nelle loro barbe senza tempo e nel loro greve dialetto; e poi, accovacciati sulla riva, senza dire una parola si sarebbero messi a squamare grossi pesci. Le turbinose piogge di settembre battevano sui vetri.

La tabaccheria era sotto i vecchi portici, su quella spianata da fiera che è la piazza di Castelnau, con tutti i suoi negozi. [...] Vi entrai poco tempo dopo il mio arrivo, una sera, dopo la scuola. E naturalmente pioveva, avevo i capelli zuppi; il negozio era vuoto. [...] Udii un ticchettio di tacchi; mi voltai, lei era là, dietro il bancone. La vedevo a mezzo busto. Aveva le braccia nude. Non credo affatto alle bellezze che si svelano a poco a poco, sempre che si sia capaci di immaginarle; solo le apparizioni mi esaltano. E questa mi mise subito nel sangue pensieri abominevoli. Dire che era un bel boccone è poco. Era alta e bianca, era puro latte. Era abbondante e florida come le uri di Lassù, vasta ma come strozzata, con la vita stretta; se gli animali hanno uno sguardo che non smentisce il loro corpo, era un animale; se le regine hanno un modo tutto loro di portare in cima alla colonna del collo una testa piena ma pura, clemente ma fatale, era una regina. Quel volto regale era nudo come un ventre: e, dentro, gli occhi chiarissimi che, per un prodigio, spesso hanno certe brune dalla pelle bianca, quella biondezza segreta sotto il nero corvino del pelo, quell'enigma che niente, se per avventura possiedi una di queste donne, niente, né le vesti sollevate né le grida, svela. Era fra i trenta e i quaranta. Tutto in lei era conoscenza del piacere, il piacere così come lo si intende di solito, certo, ma anche quello che lei elargiva a tutti, a sé stessa, a niente e a nessuno quando era sola e non si vedeva, con il semplice gesto di appoggiare là sopra le dita carnose, ruotando un poco la testa così che i due zecchini d'oro che aveva alle orecchie le toccavano la guancia, mentre ti guardava o guardava altrove, e questo piacere era vivo come una ferita; lei lo sapeva; era qualcosa che portava con ardimento, con passione. Via, è impossibile parlarne; non è cosa che sia nata dall'argilla: è come il battito furioso di migliaia di ali in tempesta, e tuttavia non esiste in natura materia più soda, più greve, più prigioniera del suo peso. Il peso di quel busto, nel complesso gracile a dispetto della svasatura dei seni, era notevole. I pacchetti di sigarette allineati dietro di lei le facevano da aureola. Non vedevo la gonna; eppure era là dietro il banco, smisurata, insollevabile. La pioggia impetuosa, di fuori, sferzava i vetri: la sentivo crepitare su quella carne intatta. I capelli mi sgocciolavano ancora sulla fronte. Quella donna, le labbra un po' dischiuse, cordiale e appena un po' sorpresa, scrutava pazientemente il mio silenzio. Aspettava di sapere che cosa volessi. Parlai in sogno, e tuttavia con voce nitida. Lei si girò, mostrò l'ascella nel levare il braccio verso gli scaffali, e la sua mano schietta, soave, inanellata, si aprì sotto i miei occhi con il pacchetto bianco e rosso delle Marlboro nel palmo. Lo sfiorai nel prendere il pacchetto.