DUE
Alberico era in uno stato pietoso, sudato, scosso da un tremito convulso, parlava in maniera concitata e incomprensibile, ma da quei confusi discorsi emergeva ogni tanto chiaramente la frase: sono stato io, sono stato io, chiama la polizia! Stefano lo cacciò sotto la doccia, gli fece inghiottire del latte caldo con un'aspirina, rimedio per tutti i mali, e lo mise a letto nella stanzetta che era stata sua da bambino e nella quale avevano dormito insieme tante volte. L'amico si addormentò immediatamente, lui invece non riuscì più a prender sonno. Ad Alberico doveva essere capitato qualcosa di terribile, ma cosa?
Ormai era l'alba, doveva scendere in città a fare le solite consegne ed era anche giorno di mercato. Tre volte la settimana caricava il furgone con i prodotti del proprio lavoro di contadino e recapitava ai suoi clienti le ordinazioni ricevute; il lunedì e il mercoledì poi aveva anche il banco al mercato, nella piazza dedicata ai Caduti in Mare. Ora non sapeva che fare, di lasciare solo l'amico in quello stato nemmeno a parlarne, se si fosse svegliato chissà cosa avrebbe potuto combinare; d'altra parte non poteva trascurare le consegne, i suoi clienti non erano solo privati, fra di essi c'erano negozi e ristoranti e la sua merce era indispensabile al loro lavoro. Finalmente decise: la Marietta sarebbe rimasta in casa a sorvegliare Alberico e in caso di emergenza avrebbe telefonato al Caffè dell'Ancora che era proprio dietro la sua postazione sulla piazza del mercato. Carletto, il titolare, lo avrebbe avvertito immediatamente. Tognìn sarebbe sceso con lui seguendolo con il motorino, in caso di necessità lo avrebbe lasciato al banco e con questo mezzo di trasporto, megio che ninte, meglio di niente, sarebbe tornato a casa.
La Marietta era una vedova vicina ai settanta, senza figli, che abitava in una piccola casa vicina, gli dava una mano per vari lavori: pulizie, cura del giardino, del frutteto, confezione delle varie conserve di stagione. Era una donna energica e di buon senso, su di lei si poteva contare per ogni evenienza; se Alberico avesse dato dei problemi se la sarebbe cavata certamente, anche perché lo conosceva da quando era bambino. Tognìn era un povero sciaccælo , un ingenuo bambinone che non aveva nessuno al mondo: era entrato al servizio della famiglia Mantero come garzonetto quando aveva quattordici anni, ma era sempre stato trattato come un figlio. Aveva una decina d'anni più di Stefano al quale era attaccato in modo quasi morboso, e alla morte dei genitori era rimasto con lui. Questi, come compenso al lavoro che svolgeva, provvedeva al suo mantenimento e accantonava ogni mese una somma per la sua vecchiaia: non gli dava mai denaro perché il poveretto era assolutamente incapace di maneggiarlo così come non aveva mai imparato a leggere e a scrivere. Se avesse dovuto lasciarlo al banco lo avrebbe affidato, come già altre volte, alle cure dell'Anita, la sua vicina di posto che vendeva pentole e attrezzi da cucina. Lei lo avrebbe aiutato con i clienti, questi d'altra parte lo conoscevano e sapevano come fare: self – service , denaro contato e un biglietto per indicare la merce acquistata, in modo tale che Stefano, a fine giornata, potesse verificare l'incasso.
Mentre caricava il furgone immerso in queste considerazioni, vide arrivare sul sentiero che portava a casa sua la Marietta, trafelata e visibilmente agitata. Quando riprese fiato gli comunicò in un'unica lunga frase contorta le tre notizie terribili di quella notte: l'incendio, l'omicidio, il furto. Stefano riuscì a capire qualcosa solo dopo che la donna ebbe trangugiato una bella tazza di caffè bollente e amaro.
Dell'incendio già sapeva, aveva ascoltato la notizia da una radio locale, subito dopo averne visto i bagliori mentre prendeva il fresco sotto l'ulivo; ora però apprese qualche particolare in più. I vigili del fuoco ancora non si erano pronunciati e l'ipotesi del dolo non poteva essere esclusa. Non c'erano state vittime perché tutti coloro che erano nell'albergo erano stati sollecitamente evacuati e l'ospite che alloggiava nella lussuosa suite andata distrutta , la signora Luisa Bisso vedova Perego, si era salvata perché quella notte era stata fuori a cena e poi per la strada a festeggiare la vittoria della squadra cittadina. Il resoconto era stato fornito alla Marietta, di primo mattino, da una sua nipote cameriera al Mare, la quale aveva aggiunto che poco prima dell'incendio il conte professore era stato visto al bar dell'Hotel ciucco perso mentre importunava gli avventori con discorsi senza senso. A nulla erano serviti i pacati inviti del barista – che lo conosceva bene per essere stato suo allievo – a tornare a casa: il professore, urlando con voce impastata, minacciava di bocciarlo. Era allora sopraggiunto il nerboruto guardiano notturno, che lo aveva sollevato di peso, trascinato fuori e messo a sedere su una panchina del Lungomare, non prima però di avergli tenuto la testa sotto l'acqua fresca della fontanella vicina.
All'annuncio del furto con scasso subito dall'ex notaio Oreste Ricci, descritto scrupolosamente dalla sua collaboratrice, Stefano fece spallucce. Non gliene importava granché, anzi: pensò che il vecchio sottaniere, maneggione e dal passato non proprio cristallino, se lo meritava. Tuttavia un dettaglio, e non da poco, gli fece cambiare idea. La vicina di casa del Ricci – altra fonte della Marietta ed anch'essa tempestiva informatrice mattutina – aveva incontrato Alberico che scendeva precipitosamente per le scale mentre lei, di ritorno da una cena a casa della figlia, stava salendo. Non avrebbe potuto dire però – come riferì ai carabinieri, intervenuti immediatamente – se il furto era già avvenuto, perché il proprio appartamento era situato al piano sottostante. Stefano pensò che questa testimone non poteva essersi sbagliata. Alberico era ben conosciuto, per la notorietà della sua famiglia ed anche perché aveva insegnato la matematica praticamente a tutti i ragazzi del quartiere, prima alla scuola media e poi al locale liceo scientifico Ada Byron dove ancora prestava servizio.
Se Stefano trasalì non lo diede a vedere. Ma il bello doveva ancora venire perché la Marietta, da consumata narratrice di storie quale era, aveva lasciato per ultima la notizia più ghiotta, l'omicidio della Mònega de Færo – la Monaca di Ferro – , come era soprannominata suor Ildegarda. Questa volta la sua fonte era quasi ufficiale: Alessandro, fotografo nella polizia scientifica, figlio di una sua cugina di primo grado. Questa signora – Mariangela Pastorino appassionata lettrice di noir , con preferenza per le imprese dei serial killer – tormentava il povero ragazzo per farsi raccontare i particolari più truci degli omicidi con i quali aveva a che fare per motivi professionali. Invano lui le aveva spiegato, più e più volte, che il suo lavoro era vincolato al segreto investigativo, che se avesse divulgato anche la minima notizia avrebbe rischiato non solo il posto, ma anche la galera.
Questa volta però fu lui stesso ad informare la madre perché da ragazzo aveva frequentato l 'Istituto Scolastico Villa Del Pilastro , gestito dalle Sorelle della Congregazione della Madonna del Gelo , e l'omicidio della vecchia suora lo aveva veramente colpito . Dopo mille e mille raccomandazioni, inutili, di mantenere il segreto, e la minaccia di tornare a vivere con lei se avesse perso il posto, Alessandro raccontò che suor Giustina, dopo aver fatto il solito giro serale di controllo per tutte le stanze, aveva trovato la Madre Superiora, nel suo studio, con la testa fracassata dalla pesante statua di bronzo che di solito stava appoggiata su una mensola collocata al di sopra del suo inginocchiatoio. L'assassino aveva poi perquisito tutta la stanza, ma non si sapeva ancora quel che cercava e se l'avesse trovato.
In realtà il fotografo non aveva raccontato nulla di più di quanto avrebbero riferito i giornali il mattino dopo, ma aveva soltanto fornito alla madre l'anteprima dell'omicidio e l'occasione di farle fare bella figura con le comari del vicinato con la speranza che, dopo una simile primizia, lo avrebbe lasciato in pace, almeno per qualche tempo. Mariangela a sua volta aveva telefonato immediatamente alla cugina la quale pochi minuti dopo era stata chiamata anche da Orlando, il vecchio guardiano notturno delle suore che da anni le faceva la corte. Costui, oltre a ciò che già sapeva, le aveva comunicato un altro particolare interessante. Dopo una interminabile pausa ad effetto, Marietta rivelò che la sera dell'omicidioAlberico aveva fatto visita alla Madre Superiora e i due avevano litigato violentemente. Il guardiano lo aveva visto uscire pochi minuti dopo in uno stato di grande eccitazione.
Questa volta Stefano non riuscì a controllarsi: «Ma che cazzo ha fatto Alberico stanotte! Ha dato fuoco all'albergo, ha saccheggiato l'appartamento del notaio e poi ha ammazzato la monaca!» Raccontò a Marietta del drammatico arrivo del professore a notte inoltrata, le e spose il suo piano, che venne senza indugio approvato, quindi se ne andò in zu. Lasciò Tògnin al banco affidandolo ad Anita e fece rapidamente le consegne più urgenti raccogliendo nel frattempo altre informazioni; quella mattina non si parlava d'altro che dei tre crimini della notte precedente; persino i commenti calcistici erano passati in secondo piano. Sicuramente Alberico aveva commesso qualcosa di molto grave, la frase sono stato io chiama la polizia era stata pronunciata più volte, e con grande chiar ezza, ma Stefano non riusciva nemmeno lontanamente ad immaginare quale potesse essere stato il suo misfatto, se uno dei tre avvenuti nella notte, come temeva, o chissà quale altro.
Al Mare, nella cucina del ristorante dove aveva scaricato la merce, ricevette le seguenti informazioni: ogni anno, il giorno di San Giuseppe, la signora Luisa Bisso Perego da Milano prendeva alloggio nella cosiddetta Suite delle due Marchese del Grand Hotel Mare Nostrum dove rimaneva fino alla metà di giugno. Anche se il periodo era in bassa stagione, il costo di una permanenza così lunga nella parte più lussuosa dell'albergo era notevole, e tutti si chiedevano come facesse la signora a permetterselo.
Luisa, come gli aveva riferito il cuoco anziano del ristorante, in gioventù aveva lavorato per un certo tempo come infermiera all'ospedale cittadino Marchesa Clotilde degli Spigola. In realtà la sua mansione era stata quella di inserviente a mezza giornata; l'attribuzione della qualifica superiore era dovuta al fatto che la gente semplice sbrigativamente definiva infermieri tutti coloro che non erano medici. Arrotondava lo stipendio con l'assistenza privata, soprattutto facendo la notte ai malati gravi sostituendo in questa incombenza le infermiere diplomate che se ne occupavano durante il giorno. Poiché era molto bella, i maligni insinuavano che gli arrotondamenti dello stipendio provenissero anche da altri generi di cure. Insieme ad una suora, infermiera con le carte in regola, aveva prestato servizio presso il conte Tommaso Maria Del Pilastro nell'ultimo periodo della malattia che lo aveva poi condotto alla morte. Un legame con Alberico c'era, ancorché estremamente labile, ma con l'albergo il nesso sembrava inesistente, pensò Stefano. Il suo informatore fornì anche un altro esile collegamento: l'infermiera diplomata era suor Ildegarda. Questo fatto poteva avere qualche significato?
Dal personale seppe inoltre che l'albergo navigava in cattive acque, la gestione era molto costosa e i clienti in costante diminuzione. Quelli estivi, tutti provenienti da agenzie di viaggi, usufruivano di prezzi scontatissimi: per ricavarne qualche profitto avrebbero dovuto essere in numero di almeno dieci volte superiore. Il divieto di balneazione poi non faceva che aggravare il problema: si fermavano un paio di giorni per visitare le rinomate bellezze paesaggistiche e poi si trasferivano in località dove le spiagge erano praticabili. Ai bei tempi, ricchi e freddolosi nordici scendevano a frotte, in inverno e in primavera, per godersi il tepore della riviera; ora invece sceglievano località esotiche, altrettanto favorevoli per il clima e il panorama, e molto più convenienti per il prezzo. Anche il bar e il ristorante davano poco guadagno; la piscina, da qualche anno rinnovata, era ancora gravata da un mutuo.
Una grossa e vorace multinazionale aspettava al varco il proprietario per ingoiare quel bel bocconcino e inserirlo nella propria catena. Lo storico Grand Hotel Mare Nostrum, che aveva ospitato nobili e principi, artisti e letterati di tutta Europa, ora rischiava di diventare uno dei tanti Hotel My Love al servizio del turismo di massa. Non ci mancava altro che l'incendio. Qualcuno sollevò il problema dell'assicurazione, c'era chi diceva che non era stata rinnovata e chi sosteneva invece che sì, e per una cifra tale che il rimborso avrebbe permesso di rimettere a nuovo tutto l'albergo. Di tante notizie ascoltate quasi nessuna era stata utile a Stefano: tutte quelle storie non avevano nulla a che vedere con Alberico.
La successiva tappa era il negozio Bontà dell'Orto e del Frutteto, con sede nel palazzo dove era avvenuto il furto con scasso. L'erbivendolo Domenico, panciuto e ciarliero, appena lo vide arrivare gli rovesciò addosso tutti i dettagli del crimine, senza trascurare ovviamente la descrizione della procace accompagnatrice esotica del derubato, così come gli era stata fornita dalla signora Lina, la vedova del primo piano che soffriva d'insonnia e passava alla finestra, proprio sopra il portone, gran parte della notte. La signora avrebbe potuto elencare tutte le occasionali accompagnatrici di quel succido (sudicione) e fornirne accurata descrizione. A dirla tutta tanto accanimento era dovuto a rabbia e invidia, perché da anni Lina Poggi vedova Parodi coltivava la speranza, neppure tanto segreta, di farsi sposare dal notaio. La moglie di Domenico, Marisa, che faceva la sua bella figura anche lei sia a pancia che a lingua, sopraggiunta per prendere il cesto del basilico, ne approfittò per aggiungere qualche dettaglio. Si diceva che in gioventù, quando la bonanima Parodi era vivo, la Lina e Oreste... insomma hai capito Stêa , e non solo con lui. Poi il povero becco se ne era andato, fumava come un turco! e lei ancora giovane aveva preso a sperare nel matrimonio, ma il Ricci aveva cominciato a dar la caccia alle figétte.
Era tutto molto interessante, ma Stefano avrebbe voluto sapere qualcosa di più della presenza di Alberico: se la vedova insonne lo aveva visto e, in caso affermativo, a che ora; tuttavia non osava chiedere per timore di coinvolgere inutilmente l'amico, dandolo in pasto a quelle lingue taglienti. Fu fortunato perché a toglierlo dall'imbarazzo ci pensò la Candida, la donna che lo aveva incontrato per le scale nella fatidica notte. Costei ripeté, con gran dovizia di particolari e ribadendo gli stessi concetti più volte, quello che già aveva riferito ai carabinieri, alla Marietta e a tutto il vicinato, ma in questo resoconto aggiunse un dettaglio inedito di cui si era scordata: Alberico portava con sé un borsone. Nelle precedenti testimonianze non se ne era fatto cenno e neppure Stefano lo aveva visto: quando si era presentato alla sua porta non lo aveva, di questo era ben certo.
Oreste Ricci, scapolo e solo al mondo, era l'ultimo discendente di una storica famiglia di notai fondata dal nonno di cui portava il nome. Nell'arco di tre generazioni, per circa un secolo, nell'archivio dello studio si erano sedimentati passaggi di proprietà, donazioni, testamenti, successioni, accordi privati più o meno segreti. Le fortune e le ricchezze, i fallimenti e le perdite di tutto il quartiere e di gran parte dell'intera città erano stati annotati da uno dei Ricci, validati a norma di legge, diligentemente classificati e riposti nei grandi armadi di noce. Qualcuno in verità aveva messo in dubbio, in più di un caso e fondatamente, la legittimità di certe operazioni, soprattutto negli anni della conduzione dell'ultimo titolare, ma le accuse non erano mai arrivate a superare il livello del pettegolezzo perché nessuna fra le ipotetiche parti lese era stata in grado di presentare formale denuncia.
Il legame fra lo studio notarile Ricci e Alberico c'era e piuttosto rilevante, anche: i Del Pilastro erano stati fra i primi clienti del notaio Oreste senior, il quale li aveva ricevuti in eredità, insieme a molti altri, quando aveva rilevato l'attività di un anziano collega defunto. Contratti di matrimonio, attribuzioni di dote, testamenti, successioni, acquisti e vendite, a partire dai primi anni del XX secolo, erano stati ratificati dalla firma di un Ricci; anche la donazione della Villa alle suore della Madonna del Gelo. L'ufficio era stato attivo fino ad una decina di anni prima quando l'ultimo titolare, all'età di settant'anni, aveva deciso di ritirarsi per godere, nel proprio restante scorcio di vita, di tutti quei piaceri che il denaro accumulato dai suoi parsimoniosi predecessori poteva offrirgli. Questi piaceri, come si è visto, si riducevano ad uno solo, sia pure con molte varianti sul tema. Il dottor Ricci non avrebbe mai buttato i suoi quattrini nel gioco d'azzardo, non era mica un belinone di quelli che si fanno spennare come polli : se spendeva, doveva avere qualcosa di sicuro in cambio e si deve dire che era disposto a pagar bene per i servizi che richiedeva, ragion per cui in un certo giro si era sparsa la voce e lui aveva sempre la possibilità di una vasta scelta.
Stefano sbrigò in fretta le altre consegne, passò al mercato per un rapido controllo al lavoro di Tògnin e, accertatosi che da casa non ci fossero chiamate, poté finalmente dirigersi a Villa Del Pilastro dove era avvenuto l'omicidio della Madre Superiora. La grande dimora che era appartenuta alla famiglia di Alberico, da diversi decenni, ospitava l' Istituto della Madonna del Gelo, una scuola privata che accoglieva bambini di scuola materna, elementare e media inferiore. Il vecchio Tommaso Maria che era stato un tenace peccatore, fino a che le forze lo avevano sostenuto, al sopraggiungere della malattia si era pentito, riscoprendo i valori della fede cattolica. Per la salvezza della sua anima aveva donato la villa, privandone i legittimi eredi, alle suore della Madonna suddetta con le vincolanti condizioni che venisse adibita ad edificio scolastico, che mantenesse lo stesso nome e che la direzione venisse affidata a suor Ildegarda, sua infermiera privata.
L'inaugurazione dell'istituto, una cinquantina di anni prima, era stata preparata con grande cura e fatica per molti mesi. Il comitato promotore si era prodigato con ogni mezzo per la realizzazione di un evento mondano e religioso che doveva risultare memorabile per la scenografia approntata, ma soprattutto per la partecipazione dei più importanti esponenti politici dell'allora maggioranza, dell'alto clero nonché dei più illustri rappresentanti della cultura cattolica. L'edificio era stato addobbato all'esterno con ghirlande e bandierine come un albero di Natale, all'interno con fiori, piante e passatoie rosse nei corridoi. Nel prato, sul lato posteriore dell'edificio, troneggiava un grande padiglione per il rinfresco. Sui tavoli, coperti da candide tovaglie, erano schierati vassoi ricolmi di ogni ben di dio accanto a scintillanti calici di cristallo, , quanto di meglio l'arte culinaria poteva esprimere nel dolce e nel salato. Camerieri in divisa bianca e nera con lo sguardo perso nel vuoto e impettiti come pinguini montavano la guardia. Davanti all'ingresso principale da un lato vi era il podio, sul quale si sarebbero alternati gli oratori, dall'altro l'altare, pronto per la messa e la benedizione alle quali i presenti avrebbero assistito in ordine sparso sulle scalinate e lungo i vialetti adiacenti. L'ingresso degli allievi, vestiti con l'uniforme bianca e blu, doveva avvenire a passo di marcia con l'accompagnamento della banda municipale e con sventolio di bandierine recanti lo stemma dell' Istituto .
La giornata era cominciata bene, aria tiepida e cielo sereno, ma all'improvviso si erano levate forti raffiche di vento che avevano strappato gli addobbi esterni e gonfiato il telo del padiglione come una vela fino a farlo volare via; subito dopo era scoppiato un fortissimo temporale, scrosci d'acqua freddi e violenti che avevano costretto i presenti a rifugiarsi in disordine e a spintoni all'interno, imbrattando i tappeti rossi. Non c'era stato il tempo per salvare nulla, le raffinate vivande sui vassoi erano ridotte a immonde poltiglie, i bicchieri scagliati a terra in frantumi, i pinguini avevano abbandonato il posto di guardia per cercare riparo. La stessa cosa avevano fatto gli illustri invitati, compreso il vescovo che era stato uno dei primi a darsela a gambe, con la sottana alzata, preceduto dal segretario che gli apriva un varco fra la folla. Anche l'altare era stato spazzato dal vento con tutti gli arredi sacri che vi erano posati. L'evento, anche se non nel modo in cui si era sperato, era stato davvero memorabile, tanto da generare il detto come o peggio che la burrasca Del Pilastro per intendere un evento catastrofico, reale o metaforico, di grande portata.
Per qualche anno, nonostante l'infausto inizio, l'istituto prosperò. Le famiglie più in vista e quelle che aspiravano ad esserlo, dietro pagamento di una retta principesca, vi iscrivevano i rampolli nella convinzione di offrir loro il meglio dell'educazione, della cultura e – beninteso – dell'insegnamento religioso. Frequentare o aver frequentato il Pilastro era il segno distintivo dell'appartenenza ad un rango elevato, ma ben presto fu palese che era anche un marchio di conclamata ignoranza. Il corpo docente era costituito da religiose dell'Ordine che avevano ricevuto una preparazione sommaria e frettolosa; i ricchi e devoti somarelli – secondo la caustica definizione del professor Alberico – al momento di sostenere gli esami di licenza alla scuola pubblica, come allora prevedeva la legge, potevano vantare una notevole impreparazione enciclopedica che li conduceva a frotte agli esami di riparazione a settembre (quando ancora esistevano) e non di rado alla bocciatura. Le iscrizioni cominciarono inesorabilmente a calare e, perfino in corso d'anno, si registravano trasferimenti sempre più numerosi.
Parallelamente anche le vocazioni andavano scemando, e l'Ordine si assottigliava: in città si era ridotto ad uno sparuto drappello di suore sempre più anziane che vivevano in un paio di sontuose dimore simili a Villa Del Pilastro, frutto di analoghe donazioni. Per il reclutamento dei docenti si dovette ricorrere a forze esterne, e questo avveniva per lo più fra le ex alunne della stessa scuola che si erano distinte non tanto per meriti culturali e pedagogici, quanto per la stretta osservanza della dottrina e della morale cattolica. Rarissimamente, per non dire mai, si erano avuti insegnanti maschi. In verità ciò una volta accadde ma, come si vedrà, si trattò di un episodio di brevissima durata. Le rette diventarono più democratiche e la scuola, divenuta paritaria, poté sopravvivere grazie ai finanziamenti statali e alle iscrizioni di somari plebei, sempre secondo il conte professore, le cui famiglie si illudevano di poter godere di un prestigio sociale che era ormai l'ombra di se stesso. Se la scuola Del Pilastro stava morendo di inedia, neppure quella pubblica si sentiva molto bene: questo era il parere di Stefano, condiviso da Alberico, il quale concludeva: e vissero tutti somari e contenti . Allo stato attuale l' Istituto ospitava una sezione di scuola materna, una ventina di bambini affidati a suor Serafina; quattro classi di scuola elementare, dalla seconda alla quinta perché quell'anno in prima non c'erano state iscrizioni; la scuola media inferiore in via di estinzione era rappresentata dalla sola classe terza.
Quando Stefano arrivò, davanti al cancello sbarrato dal nastro di plastica bianco e rosso, c'era un notevole assembramento: madri vocianti con bambini, alcuni poliziotti, il collegio docenti della scuola al gran completo e il parroco don Mario che si sbracciava cercando inutilmente di imporre il silenzio per farsi ascoltare. Suor Serafina appena lo vide arrivare si staccò dal gruppo di ansiose genitrici che la stavano assediando e si diresse verso il furgone che lui stava tentando di parcheggiare in una viuzza laterale lungo il marciapiedi, poiché l'ingresso era interdetto. Un uomo la seguì immediatamente e si avvicinò al veicolo accostando la testa al finestrino con piglio autoritario, poi si fermò per qualche secondo stupito e incredulo: «Stefano! Gran figlio...» e si fermò perché la suora era al suo fianco. E Stefano, che della suora non si preoccupava, rispose tranquillamente: «Luca, brutto stronzo! Cosa ci fai qui?»
Luca Montessoro per due anni era stato compagno di Stefano all'Università, facoltà di Lingue e Letterature Straniere: in quel periodo erano stati molto amici, avevano preparato tutti gli esami assieme, condiviso passioni politiche e culturali, divertimenti. Erano stati anche innamorati della stessa ragazza, che aveva preferito un terzo più ricco e brillante, o meglio, che non si era neppure accorta della loro esistenza. All'improvviso Luca aveva deciso di cambiare facoltà e si era iscritto a Giurisprudenza; per qualche tempo ancora si erano frequentati, sia pure sporadicamente, poi lentamente si erano persi di vista.
Dopo la laurea in legge era entrato nella Polizia, aveva prestato servizio per molto tempo in Veneto dove aveva trovato anche moglie; dopo una decina d'anni aveva divorziato e aveva sperato di tornare nella propria città. Era passato altro tempo, si era guadagnato la nomina a vice questore e, finalmente, ormai alle soglie della pensione, l'occasione per il sospirato ritorno era arrivata. La storia di Stefano era un po' più complicata, ci voleva almeno una nottata per raccontarla tutta, per questo Luca ricevette un invito a cena nella casa sulle alture per la sera stessa. Entrambi erano felici di rivedersi, anche se l'occasione non era delle migliori.
Mentre il terzetto si avviava verso il cancello dell'istituto, suor Serafina non smetteva di ringraziare Stefano e il Signore che lo aveva mandato ad aiutarle: poco mancava che si inginocchiasse a baciargli le mani come al vescovo. Luca lo guardava e sogghignava. Che invecchiando si fosse convertito? Tutto può succedere. Stefano lo fulminò con uno sguardo. Intanto qualcuno si era accorto del suo arrivo e aveva passato la voce: pochi istanti e si fece il silenzio. Ora il vicequestore non rideva più. Il suo vecchio amico era rimasto lo stesso, in qualunque situazione riusciva ad imporsi, senza dire una parola, con la naturale autorità della sua presenza che ora, nell'età matura, si avvaleva anche di una sorta di vago rispetto reverenziale dovuto alla sua drastica scelta di vita. Un uomo istruito, un professore universitario che aveva abbandonato una prestigiosa carriera per fare il contadino come i suoi antenati. Neppure l'aspetto fisico era estraneo al suo carisma: alto e snello, ma muscoloso; portamento elegante, anche con gli abiti da lavoro, capelli brizzolati, già a vent'anni, occhi grigi che si accendevano spesso di un lampo ironico, voce morbida e suadente. Le femmine di ogni età si chiedevano perché un uomo simile fosse rimasto scapolo e, poiché non gli si conoscevano avventure amorose, i maschi con una punta di invidiosa rivalsa insinuavano dubbi sulle sue preferenze sessuali, badando bene però che non ci fossero donne in giro: perché non si poteva prevedere quale sarebbe stata la loro reazione a simili bestemmie.